martedì 21 aprile 2015
Siamo messi così (male)
Ultimamente sono stato preso da un'indolenza pericola. Non che non ci siano fatti e cose di cui scrivere e commentare. Ma la situazione è sempre la stessa da tre, quattro anni. E' vero anche che in questo 2015 appena iniziato c'è stata un'accelerazione verso il disastro, malgrado sembri non cambi nulla: penso che la Grecia ci darà grandi "soddisfazioni"...
Ho travato nel seguente articolo di F. Dezzani un riassunto piuttosto inquietante di quanto sta avvenendo in Italia e dintorni. Per il momento la situazione politica-economica-finanziaria è bloccata, i così detti poteri forti (più esteri che italiani) tengono saldamente in pugno la penisola attraverso Renzi. Non è detto che ci riusciranno ancora a lungo, ma non è nemmeno detto che l'attuale opposizione al renzismo sia così determinata e capace di un'alternativa.
Quel che è chiaro, è che finalmente Licio Gelli ha raggiunto i suoi obiettivi attraverso alcuni esponenti corregionali.
"ASPETTANDO IL PARTITO DELLA NAZIONE
La situazione economica e finanziaria
Sono trascorse cinque settimane dell’avvio dell’allentamento quantitativo della BCE e l’unico settore ad averne tratto benefici significativi è, ça va sans dire, quello finanziario: acquistando titoli di stato emessi dai Paesi dall’eurozona (di cui l’80% è però riversato sulle rispettive banche centrali nazionali), Francoforte ha infatti alimentato una bolla paragonabile a quella della Federal Reserve, sebbene si differenzi da questa per lo sbocco speculativo.
Se il denaro facile della Riserva Federale ha infatti gonfiato i listini azionari e solo parzialmente il mercato obbligazionario (i Treasury a 10 anni rendono ancora attorno al 2%), l’allentamento quantitativo della BCE ha inondato il mercato dei bond governativi, consentendo laute plusvalenze agli istituti di credito che hanno nel corso dell’eurocrisi riempito i propri bilanci di titoli di Stato (tra BOT, CTZ, BTP e CCT le banche italiane erano esposte a febbraio 2015 per 423 mld, cifra in costante aumento). Dato che per le obbligazioni il rendimento è inversamente proporzionale al loro prezzo di mercato, all’allentamento quantitativo ha consentito di abbattere i tassi d’interessi e gonfiare il prezzo dei titoli di Stato, abbellendo lo stato patrimoniale degli istituti con attivi più solidi ed il conto economico grazie alle correlate rivalutazioni.
Gli effetti sono però paradossali: un Bund tedesco a 10 anni rende lo 0,1%, mentre il corrispettivo italiano, il BTP a 10 anni, paga l’1,25%. C’è da chiedersi quale investitore accetterebbe di comprare un BTP che offre la metà del rendimento di un Treasury americano, se i mercati non fossero drogati: il rating attribuito dagli USA da S&P è infatti AA+ contro il BBB- dell’Italia e Washington, a differenza dell’Italia, possiede decine di migliaia di testate nucleari con cui incutere timore ai creditori.
La situazione economica e finanziaria dell’Italia resta critica, com’era facilmente prevedibile, anche dopo l’avvio dell’allentamento monetario: era solo propaganda mediatica sostenere che 1.140 mld di nuova moneta avrebbero risollevato le sorti dell’eurozona, quando tra il gennaio del 2009 ed il febbraio del 2015 la base monetaria M3 era già salita dai 9.300 mld di euro ai 10.400 mld senza per questo evitare che le economie del Sud-Europa precipitassero nella peggiore depressione economica del dopoguerra. La natura del nostro export, destinato per più del 50% a paesi dell’eurozona, limita infatti la portata dell’unico vantaggio economico che la mossa della BCE comporta, la svalutazione dell’euro, mentre l’immediata fiammata dei mutui concessi agli acquirenti desiderosi di approfittare della continua discesa del prezzo degli immobili (-25% dal 2008) incontra un limite invalicabile nella ridotta capacità delle banche di erogare credito, gravate come sono da 187 mld di sofferenze.
Il 2015 che secondo Mario Monti avrebbe registrato una crescita del 1,3%, secondo Enrico Letta del 2% e secondo il governo di Matteo Renzi, costretto ad imbastire un Documento di Economia e Finanza credibile, dello 0,7%, si preannuncia nuovamente incerto: c’è ripresa economica se la produzione industriale è scesa nei primi due mesi dell’anno dell’1,1% rispetto al 2014 ed i consumi sono tornati a calare a febbraio dopo sei mesi di stagnazione?
Di certo c’è solo il nuovo record del debito pubblico che ha toccato a febbraio i 2169 mld che, rapportati ad un PIL ripulito da attività illecite e prostituzione, stimabile attorno ai 1560 mld, fa lievitare il rapporto tra le due grandezze al 139%, livello critico per un Paese che non disponga della sovranità monetaria. La solvibilità delle nostre finanze rientra poi nel campo della fantascienza se unita alla perdurante deflazione che attanaglia l’Italia (-0,1% su base annua a marzo), aggravando ulteriormente il fardello del debito espresso in valori nominali.
L’Italia, in un’ultima analisi, è stata ridotta dopo quattro anni di austerità imposta dalla Troika ed altrettanti anni di destabilizzazione dei nostri mercati di riferimento (Libia, Siria, Egitto, Russia) ad opera degli Stati Uniti d’America, ad un tale livello di prostrazione che qualsiasi choc esterno può esserci fatale.
La paura che l’Italia, piegata dalla crisi, sia costretta a mosse geopolitiche inedite, costringere quindi Washington ad interventi sempre più marcati nella politica interna italiana, impedendo che emergano partiti o personaggi politici desiderosi di tentare strade alternative al sistema euro-atlantico. Matteo Renzi ed il futuro Partito della Nazione sono strumenti concepiti ad hoc.
La situazione politica
Il 13 febbraio 2014, al termine della riunione di direzione dove il neo-segretario del PD Matteo Renzi accusa di immobilismo il governo in carica, il premier Enrico Letta presenta le dimissioni a Giorgio Napolitano che, fedele alle direttive che gli arrivano dall’ambasciata di Vittorio Veneto, le accetta senza neppure preoccuparsi di una formalità come un voto di sfiducia del Parlamento: Renzi scalpita infatti per entrare a Palazzo Chigi dopo un’esperienza da presidente di provincia (quelle di cui vanterà l’abolizione) ed un mandato come sindaco di Firenze.
Sia Enrico Letta che Matteo Renzi sono due ambiziosi giovani che nei primi anni della Seconda Repubblica muovono i primi passi politici nel Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli che a breve confluirà ne La Margherita: entrambi, da buoni democristiani, sanno che per accedere alla stanza dei bottoni è indispensabile ricevere la benedizione a stelle e strisce. Enrico è un frequentatore assiduo del club Bilderberg, fondato nel 1954 grazie a fondi CIA con l‘intento di aggregare le élite americane ed europee, mentre Matteo famigliarizza con l’ambasciatore americano Ronald Spogli già nel 2005 e due anni dopo si promuove presso l’establishment americano partecipando ad un Voluntary Visitor Program negli USA.
Tra i due esistono profonde differenze. Enrico Letta è l’ultimo autentico epigono della Democrazia Cristiana: silenzioso tessitore, sostenitore instancabile dei compromessi, in buoni rapporti con il Vaticano che criticherà la sua defenestrazione, è un convinto assertore della massima andreottiana per cui “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.
Dal partito del Divo Giulio, Enrico Letta ha ereditato anche l’afflato terzomondista che gli costa la poltrona a Palazzo Chigi: inserendosi senza essere invitato nel gioco delle grandi potenze sul nucleare iraniano, il governo Letta invia a Teheran il ministro degli Esteri Emma Bonino già nel dicembre del 2013; sfidando il boicottaggio di Washington e delle cancellerie occidentali che ha come pretesto la violazione dei diritti degli omosessuali (il regime change ucraino è ancora in gestazione), Enrico Letta partecipa all’inaugurazione dei Giochi Olimpici di Sochi nel febbraio 2014; è fautore di una politica araba che non subordina la questione palestinese ai diktat israeliani e dei falchi americani. Cerca insomma di ritagliarsi un margine di manovra all’interno dei paletti fissati dagli USA, attirandosi lo scherno delle figure italiane più vicine a Tel Aviv ed ai repubblicani, come il giornalista Giuliano Ferrara che lo definisce sprezzantemente un “giovane vecchio”.
L’ex sindaco Matteo Renzi è invece espressione di quel filone a lungo minoritario della Democrazia Cristiana che non ha mai disdegnato i rapporti con la massoneria, invocandone l’appoggio in determinate circostanze come fa ad esempio Ciriaco De Mita nel 1982, stando alla ricostruzione di Francesco Cossiga, per guadagnare la segreteria del partito.
La città di Firenze vanta un’antica tradizione di libera muratoria (nel 1730 dà i natali alla prima loggia d’Italia ad opera di massoni inglesi) e si fregia tutt’ora della più alta densità di logge per abitanti d’Italia: a combatterne l’influenza nel capoluogo è casualmente il ramo PCI-PDS della sinistra che dopo la giunta di Leonardo Domenici cede il campo all’ex-Margherita Matteo Renzi.
Toscano di Arezzo è anche il venerabile maestro della Loggia Propaganda 2, Licio Gelli, sulla cui attività eversiva indaga dal 1981 al 1985 la commissione parlamentare presieduta dalla DC Tina Anselmi. Nel 1982 è sequestrato alla figlia di Gelli, durante un’ispezione all’aeroporto di Fiumicino, il cosiddetto “Piano di Rinascita Democratica” che prevede una radicale riforma delle istituzioni italiane da attuarsi con il sostegno della massoneria internazionale. Il socialista Rino Formica, ex-ministro della Prima Repubblica, riconduce la politica del governo Renzi proprio all’attuazione di quel progetto: la riforma del Senato sottoposta al voto parlamentare presenta in effetti forti analogie con il piano abbozzato dal venerabile maestro della P2. In comune ci sono l’abolizione del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei senatori a 250 per Gelli e 100 per Renzi, la sostituzione dell’elezione diretta del Senato con una rappresentanza di secondo grado che deleghi alle istituzioni regionali il compito di scegliere i membri di Palazzo Madama.
La nascita del terzo esecutivo “presidenziale” è accolta dai due principali partiti di opposizione al PD, il Movimento 5 Stelle e Forza Italia, con una tacita connivenza che testimonia il degrado della democrazia italiana: i grillini si dimenano in una sterile azione di protesta che, spaventando gli elettori più che offrendo loro un’alternativa programmatica, consente a Renzi di presentarsi come l’unica alternativa al caos, mentre i forzisti scendono velocemente a patti con l’ex-sindaco di Firenze, memori del verso dell’Alighieri “vuolsi così colà dove si puote” (Oltreoceano).
A tessere le relazioni tra il Cavaliere e l’ex-sindaco è il forzista Denis Verdini, accreditato di lunga militanza massonica, che architetta la riabilitazione del declinante Silvio Berlusconi subordinata al sostegno delle riforme istituzionali del governo: è il cosiddetto Patto del Nazareno, i cui vacillamenti sono sempre accompagnati da una recrudescenza dell’azione della magistratura contro Silvio Berlusconi e Mediaset. In particolare è l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella il 31 gennaio 2015 a mettere in crisi l’accordo (“un colpetto al patto del Nazareno” lo definisce l’ex-DS Pierluigi Bersani): come vedremo tra poco, gli screzi su Mattarella sono funzionali solo ad interessi di piccolo cabotaggio, dal momento che l’elezione dell’ex-giudice costituzionale rientra nella ristretta rosa dei candidati di Washington.
Ad ogni modo i giornali del 4 febbraio riportano la notizia che Silvio Berlusconi ha rotto il Patto del Nazareno, reputandolo non più vincolante. Immediata scatta la reazione dei soggetti che esigono dal Cavaliere il supporto al governo, o sarebbe meglio dire che esigono il voto dei suoi parlamentari. Dai meandri della vicenda Ruby, riaffiora il 24 febbraio la soubrette Marystelle Polanco che minaccia nuove, misteriose e clamorose rivelazioni sulla vicenda delle olgiattine: il ricatto non deve essere troppo convincente se il governo Renzi, per riportare i forzisti al tavolo delle trattative in vista della periclitante approvazione dell’Italicum, minaccia a sua volta Mediaset ipotizzando l’abolizione del canone e la pubblicità illimitata per le reti RAI.
La ditta di Gianroberto Casaleggio, che si avvale dell’ex-comico genovese Giuseppe Piero Grillo come portavoce, saluta invece l’elezione a premier di Matteo Renzi nel rispetto delle direttive per cui il Movimento 5 Stelle è stato creato: una roboante e sterile cagnara che, anziché focalizzarsi sugli strumenti concreti per l’uscita dal sistema monetario e militare della UE/NATO (la ricerca di alleanze internazionali in cui è impegnato Alexis Tsipras), si manifesta in frivole boutade come il reddito di cittadinanza ed il referendum sull’euro, utili solo a mantenere lo status quo.
Il M5S, filiazione del blog beppegrillo.it, è l’ennesimo prodotto della Open Society Foundations del finanziere George Soros. Invece di fomentare una rivoluzione colorata, del tutto inutile dato che il nuovo uomo di Washington -Matteo Renzi- è già al comando, M5S incanala le frustrazioni ed il malcontento generati dalla disastrosa situazione economica e li rende innocui attraverso un infantile poujadismo. Sul sito della fondazione di George Soros (a sua volta semplice paravento della CIA come fu ai suoi tempi la Ford Foundation) si legge infatti come il M5S sia un’alternativa efficace ai movimenti di protesta nazionalisti che, non a caso, dal Front National alla Lega Nord simpatizzano per Mosca:
“The key question for Europe is whether movements like M5S offer a genuine way to re-engage voters with politics. Our previous research into right-wing populist parties has shown that much of the support for these parties is driven by a dislike and distrust of political elites. The M5S could be a model that allows citizens to challenge the way that politics is done without scapegoating parts of the population”.
Se Giuseppe Piero Grillo è un placido ex-comico di 67 anni, con alle spalle una condanna per omicidio colposo che lo rende politicamente innocuo, il discorso si fa più interessante per il “guru” del Movimento 5 Stelle, il tecnico informatico Gianroberto Casaleggio, che dopo una prima esperienza all’Olivetti di Ivrea sbarca alla Webegg S.p.A, società del gruppo eporediense specializzata in informatica per le imprese e controllata dal 2002 da Telecom Italia.
Senza fini probatori, ricordiamo che più di un brigatista rosso sospettato di agire per conto dei servizi segreti italiani (da Mario Moretti a Marco Mezzasalma) ha lavorato in società del gruppo Telecom-Stet, oppure come tecnico informatico in aziende della difesa. Con un personaggio dei servizi segreti Casaleggio è sicuramente entrato in contatto, considerato che l’ex-magistrato immagine di Tangentopoli, Antonio di Pietro, figura per per un certo periodo della sua vita nella scorta del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, prima di intraprendere esotici viaggia alle Seychelles per conto del Sismi a caccia di un faccendiere iscritto alla P2. La Casaleggio&associati, costituita nel 2004, gestisce infatti fino al 2010 sia il blog di Grillo che quello di Di Pietro: è l’ex-magistrato a troncare i rapporti con il guru dei M5S, a causa del vizio di Casaleggio di modificare a suo piacimento i contenuti del sito, alzandone i toni con violenti attacchi al PD ed alla stampa.
Se le elezioni di Sergio Matterella al Quirinale ha incrinato il Patto del Nazareno, ha aperto invece la possibilità che in soccorso al governo di Matteo Renzi debbano essere mobilitati i grillini, che hanno salutato la salita dell’ex-DC alla presidenza della repubblica come “una discreta vittoria del M5S”. Da allora è iniziata una rapida istituzionalizzazione del movimento, culminata il 10 marzo 2015 con l’intervista del Corriere della Sera a Gianroberto Casaleggio, dove il guru informatico apre le porte al dialogo col PD. Non è da escludere che gli M5S siano costretti a subentrare al Cav nel sostegno a Renzi qualora il Patto del Nazareno saltasse definitivamente, ma l’operazione rischierebbe di bruciare alla prima tornata elettorale lo strumento studiato da Washington per convogliare il voto di protesta, non certamente per votare le riforme della Troika.
L’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale è davvero una vittoria dell’ala sinistra del PD? L’ex-DC con un passato alla Corte Costituzionale potrà non piacere a Silvio Berlusconi, ma difficilmente la sinistra avrebbe esultato per la sua elezione in altri tempi. L’anodino settantenne deve infatti la sua fortuna politica, come molti altri parenti delle vittime del terrorismo di Stato, all’aver incassato senza troppi interrogativi l’assassinio del fratello maggiore Piersanti Mattarella.
Piersanti,carismatico assessore siciliano della DC in prima linea nella lotta contro la mafia, è infatti assassinato nel gennaio del 1980, due anni prima che cada un altro politico siciliano, il comunista Pio Latorre, anch’esso strenuo oppositore di cosa nostra: sono gli anni degli euromissili installati nella gigantesca base militare di Comiso ed il tacito sostegno alla mafia serve agli angloamericani ed alle istituzioni per controllare l’isola. Piersanti Mattarella, proprio come Pio Latorre, è giustiziato al volante della sua auto con un agguato che ha ben poco di mafioso: l’ultima indagine di Giovanni Falcone verte infatti sul ruolo esercitato dagli estremisti di destra nell’omicidio (i Nuclei Armati Rivoluzionari della rete Gladio sospettati di avere agito come semplici sicari su commissione).
Sergio Mattarella non ha voluto indagare sul ruolo della Gladio e della NATO nell’omicidio di suo fratello (“la Gladio democristiana è in gran spolvero e movimento” commenta l’ex-collaboratore di Francesco Cossiga, Paolo Naccarato, al momento dell’elezione di Mattarella) ed anzi è uno dei padri del controverso progetto per l’acquisto dei Lockheed Martin F-35.
Sistemata l’incombenza dell’elezione del Presidente della Repubblica, Matteo Renzi può tornare a dedicarsi alla mansione per cui è stato collocato a Palazzo Chigi: la rapida dilapidazione dell’apparato produttivo italiano secondo le linee della City di Londra e del Fondo Monetario Internazionale.
Se le ultime grandi industrie italiane private sono libere di spostare sedi legali e marchi all’estero (l’ex-Fiat di Sergio Marchionne che traghetta l’intera filiera -dalla finanziaria Exor al marchio Ferrari- in Olanda) e cedere il pacchetto di controllo ad investitori stranieri (la Pirelli di Marco Tronchetti Provera e la vendita di Indesit all’americana Whirlpool), l’ex sindaco di Firenze si affretta a “privatizzare”, ovvero vendere, quel poco che rimane delle partecipate statali.
Con un’ “operazione lampo” il Tesoro piazza sul mercato il 5,7% di Enel, rendendo così scalabile la società, e ricava la cifra di 2,2 mld che non serve neppure a fronteggiare l’aumento del debito pubblico tra il mese di gennaio e febbraio, passato da 2166 mld a 2169 mld. Se il piatto delle privatizzazioni comprende succulenti bocconi come Poste italiane (temute dagli istituti di credito per la concorrenza nel settore bancario), Enav e Ferrovie , il duo formato da Matteo Renzi e dall’ex-FMI Pier Carlo Padoan interviene a gamba tesa anche sui contratti tra privati, sancendo per decreto la trasformazione delle banche popolari in società per azioni: con l’ennesimo voto di fiducia il decreto tanto caro alla City di Londra, perché rende scalabili le succulente società cooperative di credito, è trasformato in legge il 24 febbraio.
La vita parlamentare del governo Renzi è però complicata dalla minoranza di sinistra del Partito Democratico che, dopo aver ingoiato la riforma del lavoro di stampo neoliberista voluta da BCE-UE-FMI (alcuni esponenti del PD non hanno però resistito al richiamo della manifestazione della Fiom del 28 marzo in Piazza del Popolo), si domanda perché chinare ancora il capo davanti a riforme elettorali e costituzionali che non hanno impatti su economia ed occupazione e, al contrario, sono interpretate dagli ex-DS come un attacco al sistema democratico.
È difficile stabilire se Matteo Renzi si concentri sull’Italicum per imprimere un moto al governo impossibile in campo economico, oppure se cerchi semplicemente lo scontro per ottenere le elezioni anticipate: il destino del PD sembra comunque segnato ed all’orizzonte si profila un nuovo soggetto politico, il Partito della Nazione.
Il Partito della Nazione
La comparsa sui radar del Partito della Nazione risale alla primavera del 2012 quando Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli annunciano in un summit alla Camera la nascita di un nuovo soggetto politico che si prefigura “moderato, laico, ma di ispirazione cattolica” secondo Rocco Buttiglione e “nazionale e repubblicano, riformista e liberale” secondo Italo Bocchino.
La presenza di Rutelli è significativa perché è sotto l’ala protettiva del presidente de La Margherita che cresce politicamente Matteo Renzi ed insieme li troviamo nel 2007 in visita ufficiale negli USA presso Hillary Clinton: il maestro consente così al discepolo di farsi conoscere anche dai Democratici americani, dopo una lunga serie di contatti solo con i Repubblicani.
L’avveniristico progetto del PdN non può certo essere collegato a tre logori volti della Seconda Repubblica: è quindi messo a bordo campo con i tre leader che, a differenza del partito, scompariranno definitivamente dalla scena politica.
La mancia elettorale degli 80 euro a 10 milioni di italiani e l’astensione di quasi metà dell’elettorato consentono al PD di raccogliere alle elezioni europee del 25 maggio 2014 il 40% delle preferenze. Pochi giorni dopo, il 29 maggio, appare sull’Unità un articolo di Alfredo Reichlin dal titolo “Con Renzi ha vinto il partito della nazione” dove si elogia lo straordinario successo del PD e di Matteo Renzi, diventato leader dalla sinistra europea, e si riesuma un vocabolo tradizionalmente estraneo al lessico del mondo comunista cui appartiene l’anziano dirigente PCI: “nazione”.
La crisi ha intaccato il tessuto della nazione italiana, dice Reichlin; è in corso un “assalto sovversivo contro l’organismo nazionale e contro lo Stato che rappresenta tuttora l’ordine”; l’unico argine a questa minaccia è rappresentato da Matteo Renzi, che si è presentato come il segretario del “partito della nazione”. Il discorso suona un po’ strano considerato che l’autore è un anziano ex-giornalista e dirigente del PCI, ma si inquadra meglio se si ricorda che Alfredo Reichlin, come Giorgio Napolitano, è un vecchio esponente dell’ala migliorista del Partito Comunista, da sempre vicina a Washington ed agli interessi della NATO.
La gestazione del progetto dura tutta l’estate, finché il 20 ottobre 2014 Matteo Renzi non la partorisce in diretta televisiva su Canale 5, ospite di Barbara d’Urso: sta per nascere un partito che offre cittadinanza a tutti i soggetti interessati ad entravi, dai fuoriusciti di SEL ai popolari passando per Scelta Civica, ed in un futuro non lontano potrebbe assumere il nome di “Partito della Nazione”.
Neanche 24 ore dopo, Matteo Renzi rilancia la proposta, questa volta durante la riunione della Direzione del partito: il PD è a vocazione maggioritaria e “deve essere un partito che si allarga, Reichlin lo ha chiamato il Partito della Nazione. Deve contenere realtà diverse”. Forse a causa dell’annuncio in diretta televisiva sul nazional-popolare Canale 5, forse a causa dell’evolversi troppo rapido degli eventi, Alfredo Reichlin prende carta e penna e scrive una lettera a Repubblica rinnegando l’uso che Matteo Renzi sta facendo della sua idea di Partito della Nazione.
Il dato ormai è tratto. Per velocizzare il processo non resta che espellere la minoranza di sinistra all’interno del PD ostile al progetto: di per sé l’operazione è piuttosto semplice data la frammentazione dell’ala sinistra e l’assenza di un leader rappresentativo capace di compattare le diverse correnti. È Massimo D’Alema, l’unico ex-DS dotato di un’intelligenza politica sufficiente per cimentarsi nell’impresa, a tentare il contrattacco: il 21 marzo 2015, durante l’assemblea della minoranza PD, taccia Renzi di arroganza (una duello alla pari), mette in guardia dall’emorragia di iscritti (non ostacolata ma perseguita, dice D’Alema), invita all’unità d’azione ed a creare un’associazione per rifondare la sinistra.
Se è Massimo D’Alema il più pericoloso avversario di Renzi, urge abbatterlo: il 30 marzo, nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti ruotanti attorno alla metanizzazione dell’isola di Ischia, sono pubblicate le intercettazioni dove i vertici della cooperativa Cpl coinvolta nell’inchiesta asseriscono di aver comprato centinaia di copie di libri e 2.000 bottiglie di vino di Massimo D’Alema, per accattivarsi i suoi favori. Il Corriere della Sera titola: «Compriamo libri e vino di D’Alema» Poi la frase sullo sporcarsi le mani. Lo sputtanamento del leader maximo è servito.
Qual è lo scopo del Partito della Nazione? Secondo il filosofo Massimo Cacciari il lucido piano di Renzi mira ad archiviare la tradizione socialdemocratica per sfondare nell’elettorato di destra e costruire un’egemonia attorno alla figura del capo. Partito della Nazione, continua Cacciari, è una boutade populistica perché i partiti sono indissolubilmente legati alla rappresentanza di alcuni interessi e immaginare un partito della nazione è una contraddizione logica.
La più lucida analisi sulle finalità del Partito della Nazione è nelle pagine che lo storico Renzo De Felice dedica agli anni ’30, da lui definiti gli anni del consenso del fascismo: Benito Mussolini tocca l’apice della popolarità in corrispondenza dell’identificazione di massa degli italiani con il regime, diventato sinonimo di patria. Qualsiasi oppositore politico al fascismo è moralmente e psicologicamente un nemico della Patria e come tale privo di qualsiasi legittimità. Come potranno definirsi i futuri avversari politici del Partito della Nazione, se non avversari dell’Italia?
Resta solo da spiegare perché l’establishment angloamericano, in un momento critico dell’Italia che rischia di sfociare in pericolosi ed imprevedibili ribaltamenti geopolitici, abbia optato come nel 1922 per un uomo forte alla guida di un partito plebiscitario.
La risposta sta nella percezione che hanno gli anglosassoni dell’Italia, mirabilmente descritta dall’ambasciatore britannico presso la Santa Sede, Darcy D’Osborne, nel 1943: “i principi e le regole della democrazia sono estranei alla natura del popolo italiano, che non si interessa di politica (…) Mussolini aveva ragione a dire che gli italiani sono sempre stati povera gente”.
Sopravviverà il PdN agli sconquassi dell’eurocrisi? C’è da dubitarne."
(www.comedonchisciotte.org)
(federicodezzani.altervista.org)
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