mercoledì 17 luglio 2013

Argomentazioni contro il ritorno alla lira


Finalmente ho letto qualcosa che non sono le solite minacce terroristiche del Pud€ (Partito unico dell'Euro) contro un eventuale ritorno alla lira. Nei media main stream e sui quotidiani sussidiati si leggono solo messaggi spaventosi (a volte persino ridicoli): con la lira non potremmo più comprare il petrolio, con la nuova lira avremmo una svalutazione del 50%, con la nuova lira avremmo un'inflazione galoppante che ci costringerà a fare la spesa quotidiana con una carriola di banconote cartastraccia ecc... Tanto che viene da chiedersi come abbiamo fatto a sopravvivere nei 150 anni precedenti all'euro. Parte di questo periodo l'ho vissuto e non ricordo periodi di miseria così nera, anzi forse arriveranno adesso con l'euro.

Scacciavillani nel suo blog su ilfattoquotidiano.it ha scritto un post che sembra una risposta ragionata diretta alle argomentazioni del prof. Bagnai. Malgrado non sia d'accordo con Scacciavillani e ritengo che permanere nell'errore, orrore dell'euro sia peggio che tornare alla lira, mi paiono interessanti i ragionamenti circa svalutazione e inflazione che non sono parametri da considerare fissi, ma cambiano a seconda delle condizioni al contorno.

L'unico appunto di stile lo faccio sulla scelta del termine "bungalire" che serve a screditare agli occhi del lettore una moneta che nel bene e nel male ci ha accompagnato per più di un secolo, permettendoci di vivere, lavorare, acquistare materie prime, ecc. Si poteva usare un termine più neutro, si sarebbe ottenuto lo stesso risultato di inoculare qualche dubbio presso i sostenitori del ritorno della lira.

"Ritorno alla Lira per aspiranti nababbi

Il rito officiato per il popolo delle Bungalire tocca l’apogeo nella fase Funari, quando si argomenta nello stile sdoganato dal compianto Gianfranco. Poi la ggggente, con sguardo rapito, intona la Litania della Competitività. Le strofe esaltano la nemesi dell’euro, quando le Bungalire diffonderanno il Nuovo Miracolo Economico con tasse irlandesi, servizi pubblici scandinavi, infrastrutture kuwaitiane e l’Italia risorgerà dalle ceneri più bella e più grande che prima.

Al contrario delle gag di Petrolini, questi riti messianici hanno aspirazioni di scientificità, sulla falsariga della tradizione alchemica. Infatti la moneta filosofale viene spacciata con asserzioni tipo “nel 1992 dopo una svalutazione del 20% l’inflazione diminuì dal 5% al 4% e le esportazioni aumentarono” sottintendendo che tutto filò liscio e sinuoso come una pitonessa nella giungla.

Ma andiamo a vedere cosa accadde esattamente nel fatidico 1992. Tra agosto e dicembre la lira si svalutò di circa il 28% sul dollaro passando da un cambio medio mensile di 1102,6 a 1415,2 mentre si svalutò del 17,5% contro il marco passando da 759,7 a 894 (dati Banca d’Italia). L’inflazione (rilevata su indici medi) passò dal 5% del 1992 al 4,5% nel 1993. Queste cifre hanno solidificato la vulgata secondo la quale abbandonando la moneta unica si ripeterà la magia: una svalutazione della Bungalira del 30% porterebbe qualche punto di inflazione in più, ma ristabilirebbe la competitività del sistema Italia in pochi mesi.

Un primo indizio confuta tali aspettative: tra il 1992 ed il 1993 si persero circa 700mila posti di lavoro e altri 300mila nel 1994, in tutto oltre un milione di persone rimasero per strada. Inoltre il Pil nel 1993 diminuì dello 0.9%. Ma questi furono gli effetti di breve periodo.

In realtà dopo una drastica svalutazione gli effetti sui prezzi non sono immediati. Si dipanano su un intervallo di tempo più o meno lungo a seconda delle circostanze, della congiuntura internazionale, dei tassi di interesse mondiali, del commercio internazionale eccetera. E’ un fenomeno che gli economisti definiscono passthrough e su cui esiste una letteratura sterminata.

Se allarghiamo l’orizzonte temporale notiamo ad esempio che la lira si svalutò del 38% contro il dollaro tra agosto 1992 e dicembre 1996, mentre di circa il 30% contro il marco. L’aumento cumulato dei prezzi al consumo (in pratica una tassa iniqua sui ceti bassi che non possono difendersi dai rincari) nello stesso periodo fu circa il 20%. Quindi è vero che la svalutazione non si scaricò completamente sui prezzi, ma il motivo è che vi furono allo stesso tempo degli aggiustamenti reali. In primo luogo per evitare il collasso oltre alla moneta si svalutarono anche i salari reali. Le retribuzioni contrattuali orarie lorde infatti aumentarono negli anni tra il 1993 ed 1996 tra il 3% ed il 3,5%, mentre il Pil nominale per unità di lavoro aumentava di oltre il 6%.

L’effetto netto della tirata di briglie si nota anche dalla quota dei salari nell’economia che scese dal 73% del 1992 al 68% del 1996. Ma in alcuni settori esposti alla concorrenza internazionale, come l’industria dei mezzi di trasporto, il calo fu alquanto più netto, intorno ai 10 punti percentuali tra il 1993 ed il 1997. Il recupero di competitività fu attuato quindi in parte attraverso il costo del lavoro.

Questo aggiustamento fu anche determinato dell’accordo tra Confindustria, sindacati e Governo Ciampi del luglio 1993 che in pratica sancì la fine di qualsiasi vestigia di scala mobile (già disdetta peraltro dalla Confindustria nel 1991): i sindacati accettarono una riduzione dei salari reali (attraverso la vaselina dell’inflazione programmata) in cambio della preservazione dello Statuto dei Lavoratori che garantiva i lavoratori sindacalizzati e scaricava i costi brutali su quelli delle piccole imprese senza tutela.

Ma non è tutto. Un secondo ordine di fattori fu legato ai prezzi delle materie prime. L’indice dei prezzi del petrolio (fonte Fondo Monetario Internazionale) passò da circa 37 ad agosto 1992 ad un minimo di circa 25 a dicembre 1993, con una caduta di oltre il 40%. I prezzi dei metalli diminuirono di circa il 28% nello stesso periodo.

Ecco spiegata il mojo della svalutazione: nella fase critica le nostre imprese nonostante l’impennata del dollaro, pagarono di meno (anche in lire svalutate) le materie prime, sopratutto quelle energetiche, mentre i prodotti finiti, venduti in dollari e marchi, gonfiavano i profitti.

Infine la spesa pubblica che servì a comprare il consenso negli anni di Tangentopoli: il debito pubblico nel 1991 era al 97,6% del Pil. Nel 1994 schizzò al 121,2%, una botta da cui ancora non ci siamo ripresi. Riassumendo dopo l’uscita dallo SME il sistema italiano non crollò grazie a tre fattori:

1) Un costo del lavoro in discesa, il licenziamento degli impiegati più anziani, meno produttivi e più costosi magari pre-pensionando i cinquantenni (benefici di cui i contribuenti ancora pagano il conto).
2) Materie prime meno care a fronte di prezzi all’esportazione in aumento
3) La spesa pubblica che metteva una pezza sulle inefficienze e la corruzione

Abbandonare l’euro è un processo molto più traumatico che sforare una banda di oscillazione. Tanto per dirne una, solo per stampare e introdurre nuove banconote occorrerebbero mesi durante i quali regnerebbe il caos. Inoltre il debito sovrano è denominato in euro e nessun risparmiatore (italiano o straniero) accetterebbe l’esproprio. La fiducia nel trucco geniale è la degenerazione in età adulta di un’adolescenziale illusione: che basti copiare sistematicamente il tema o l’esercizio a scuola per svangarla alla grande nella vita."

(www.ilfattoquotidiano.it)

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